giovedì 10 dicembre 2015

Bookshop sul Giappone al Mercatino Giapponese di Natale di Doozo 





Direi che ormai è una tradizione, dunque anche quest'anno vi aspetto domenica 13 dicembre all'angolo bookshop del Mercatino giapponese di Natale di Doozo

Lo spazio è dedicato interamente alla letteratura e alla cultura giapponese. Ho scelto personalmente tutti i volumi, spaziando dai libri per bambini ai manuali di arti tradizionali, dalla narrativa alla poesia alla saggistica.

Sarò lì dalle ore 12:00 alle 21:00 per chiacchiere e consigli di lettura. 

Insomma, se volete trascorrere un po' di tempo a parlare appassionatamente di pratiche ascetiche, volpi che si trasformano in belle donne, dame di corte, buddha e bodhisattva, sciamane cieche, automummificazione, Kapibara-san e Rirakkuma, Il grande sogno di Maya, ragazzine del liceo che all'uscita di scuola si arrotolano in vita la gonna della divisa per farla sembrare una minigonna o di qualsiasi altro argomento riguardante il Giappone, sapete dove trovarmi!

Naturalmente non ci sarò solo io! Nella locandina e nel sito di Doozo ci sono tutte le informazioni sull'evento e su cos'altro potrete trovare.

Per qualsiasi dubbio scrivetemi!





domenica 6 dicembre 2015

Una notte sul treno della Via Lattea 



Qualche settimana fa, durante un viaggio in treno, ho ripreso in mano un vecchio manuale di grammatica giapponese. Ovvio che, traducendo, consulto continuamente grammatiche di vario genere, ma erano anni che non ne studiavo una dalla prima all'ultima pagina, svolgendo gli esercizi, segnandomi le parole sul taccuino, esercitandomi man mano a scrivere gli ideogrammi che tendo a dimenticare più facilmente. 





La preparazione di un esame mi ha riportato a questo mondo passato, il mondo degli anni di studio all'Istituto Giapponese di Cultura. E, soprattutto, il mondo dei miei primi studi in Giappone. Non che non pensi mai a quegli anni, ma le due ore di treno da Roma a Bologna hanno fatto affiorare qualcosa di diverso dai semplici ricordi. 

Era una sensazione viva, presente, esattamente uguale a quella dell'epoca e non un semplice crogiolarmi nella nostalgia per un passato che, appunto, è passato. 

Parlo di quella felicità immobile, senza tempo, immutabile, alienante, rappacificante, salvifica di studiare una lingua su un manuale.

Mentre leggevo l'elenco di frasi che illustravano una determinata regola mi sentivo rassicurata e, nello stesso tempo, meravigliata. Avevo scordato il piacere infinito di imparare le espressioni e le regole in modo schematico e sistematico, quasi astratto. Direi come in un distillato, in una specie di versione perfetta e senza sbavature della lingua, dove si susseguono frasi dal contenuto per lo più idiota: 

Più studio giapponese più divento bravo.

Se fossi io il professore, eliminerei gli esami.
Al concerto ero sul punto di starnutire, ma ho resistito.

Ho pensato al titolo di un racconto di Miyazawa Kenji: Una notte sul treno della Via Lattea. La situazione in cui ero non c'entrava assolutamente nulla con la storia in questione, però mi immaginavo su un treno in corsa tra le stelle a studiare grammatica.


Poi, visto che evidentemente ero in vena di riferimenti e citazioni che non c'entravano nulla, ho pensato alle Lezioni Americane di Calvino, quando - in Rapidità - dice:

Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com'è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull'immobilità delle parole mute. 

Il mio studio, in particolare quello delle lingue, lo vedo un po' così. 

Penso alle ore trascorse in biblioteca a Tōkyō, a studiare frasi su frasi, scrivere, correggere, scoprire, dimenticare e ricordare, e ogni volta essere felici. Il fine era pratico, certo, ma per me è sempre stato più un dimenticarmi delle ore e dei giorni, di tutto, dando spazio alla mia introversione, immaginando un mondo diverso, afferrabile e preciso, pulito. 

Non sono una fanatica della grammatica, non è questo. Non sono tra quelli che tengono comizi sull'uso dei congiuntivi, si indignano per i prestiti dall'inglese o fanno le pulci agli altri quando parlano e scrivono. Solo, studiarla, mi distende, mi assorbe, mi scioglie e semplifica i pensieri. Rispetto a tradurre, un libro di grammatica è più dolce, come chiacchierare con un vecchia amica, è un treno per la Via Lattea su cui resterei giorni, una vita.

Come avevo fatto a dimenticare quello stato di quiete, direi quasi meditativo? Come posso fare per non dimenticarmene ancora? Che argomentazioni posso portare a mia difesa di fronte a chi leggendo questo post mi dirà: ma vai a zappare la terra? 


  

domenica 16 agosto 2015

Cha no yu

Una questione privata


In questi anni ho avuto la fortuna di assistere molte volte, sia in Italia che in Giappone, alla preparazione del tè, mi sono occupata in diverse occasioni di cha no yu e ho organizzato degli incontri-dimostrazioni o dei piccoli corsi presso Doozo con praticanti della scuola Urasenke e della scuola Ueda, ma sento che dopo ieri è cambiato qualcosa nella mia personale visione della Via del Tè.

Fino ad ora ho partecipato alla preparazione del tè in situazioni molto formali o in dimostrazioni pubbliche, mentre ieri eravamo solo io e altre quattro amiche, in casa, in un'atmosfera rilassata e serena.

La casa, che tutti chiamano a ragione Paradise, è nella zona di Ichijōji, vicino al tempio Enkōji, a nord-est della città. Sia in cucina che nella stanza con i tatami al piano di sopra ampie finestre regalano una vista incredibile su Kyōto e sulle dolci montagne che la circondano. Sembra di essere davvero in paradiso e di poter guardare tutto dall'alto con una pace non umana.


 

Appena arrivate, per prima cosa abbiamo cominciato a tirare fuori tazze e utensili mangiando una torta.




Dopo vari dolci e tante chiacchiere, sono iniziati i preparativi: abbiamo sistemato il braciere, portato le tazze al piano di sopra, preparato l'acqua, i dolci, messo il tè maccha nella scatolina (cha-ire). 

















Poi alternativamente abbiamo cominciato a preparare e bere il tè. Dalla finestra che occupa l'intera parete entrava la luce arancione del sole del tardo pomeriggio, era così forte che quasi non si riuscivano a vedere nel dettaglio i gesti della preparazione.

Dopo aver indossato lo yukata ho preparato anch'io il tè per gli altri. 

È stata la mia prima volta perché fino a ieri avevo sempre fatto solo da ospite, cioè avevo solo bevuto il tè che mi veniva preparato da praticanti esperti. Forse perché erano situazioni formali, non saprei, fatto sta che nessuno prima d'ora si era mai offerto di farmi provare. Invece ieri, tra una chiacchiera e l'altra, tra un dolce, una risata e un silenzio, Izumi mi ha insegnato come fare, con la sua voce dolce e paziente, seguendo passo dopo passo tutti i miei gesti. 

Ho letto tanto sul cha no yu, sul purificare la mente e il cuore preparando il tè, sull'identità tra Zen e Tè e ho sempre amato tutto questo alla follia. In più pratico meditazione zen e yoga da anni. Insomma, quello che voglio dire è che non sono una novizia della teoria del cha no yu e che grazie alla meditazione sono anche abbastanza abituata a fermarmi, a esercitarmi nel purificare la mente e calmare il kokoro, a far scivolare i pensieri, a sentire il corpo, controllare i gesti, fare attenzione ai piccoli movimenti, al silenzio e all'immobilità. 

Eppure, nonostante tutto questo, la sensazione di ieri è stata nuova, fortissima. Era come galleggiare nella luce del sole, come se il tempo fosse completamente fermo e i pensieri andati chissà dove, ma senza alcuno sforzo e alcuna intenzione. Mi è sembrato che venti minuti fossero giorni, e pieni di tutto. 

Dopo aver finito, quando la testa ha ricominciato a pensare, ho ricordato Tollini che ne La cultura del Tè in Giappone e la ricerca della perfezione scrive:

紅炉上一点雪 (sul braciere rovente un fiocco di neve)
Quando un fiocco di neve cade su un braciere rovente, immediatamente si dissolve. Allo stesso modo, al chajin impegnato nella preparazione del Tè, quando viene un pensiero lo lascia svanire proprio come il fiocco a contatto con il fuoco.

Quello che doveva essere un pomeriggio si è allungato, è continuato fino a sera, fino a notte, quando ormai eravamo tutte uno sbadiglio e un appoggiarci sempre più ai cuscini. 
Abbiamo fatto le ore piccole a preparare e bere tè. Cosa può esserci di meglio? Meglio di un sabato a praticare un cha no yu intimo, per il piacere di bere e offrire il tè e per il piacere di stare insieme, in maniera rilassata, chiacchierando e imparando l'una dall'altra tempi e movimenti?

Ho avuto la sensazione di essere più vicina che mai a un'essenza, a un risveglio, molto più ora che in tutte le volte in cui ho assistito a preparazioni precise, formali e rispettose delle regole in ogni dettaglio. 

La Via del Tè, come scrive Tollini, è certamente una ricerca della perfezione, ma almeno per me, dopo ieri, è prima di tutto la ricerca di una felicità privata.


lunedì 13 luglio 2015


Kyōto 
piccolo diario fotografico dei primi giorni in città



Non ho ancora fatto molte foto da che sono qui: la stanchezza del viaggio, il tempo necessario per abituarmi al fuso e la necessità di sbrigare alcune cose pratiche mi hanno un po' distolto, ma visto che sono una fotografa abbastanza scadente non vi siete persi molto! Comunque, nei prossimi giorni cercherò di impegnarmi di più e di pubblicare qualche scatto per condividere con voi un po' di Giappone.

Appena arrivata la prima cosa che ho fatto è stata vagabondare un po' per il quartiere. 
Vi presento la piccola stazione di Shijō Ōmiya 四条大宮駅 a due passi da casa:












Le strade principali sono le classiche stradone grigie delle grandi città giapponesi:






Ma basta avventurarsi nelle piccole traverse per fare incontri inaspettati e molto graditi:
















Nel vicino quartiere di Gion 祇園 fervono i preparativi per il Gion matsuri 祇園祭, un'antica festa popolare che si tiene ancora oggi a metà luglio:







Ed ora la cosa forse più bella. Ho avuto il privilegio di fare la mia prima lezione di Aikidō qui in Giappone nel (kyū)Butokuden 旧武徳殿, un bellissimo dōjō di epoca Meiji). Le foto purtroppo non rendono, ma per me è stata in molti sensi un'esperienza di rinascita:










Il nostro maestro di spalle e, sullo sfondo, la foto di Ueshiba sensei





domenica 12 luglio 2015

Sotto-sopra
in Giappone


Prima che partissi per Kyōto, una mia cara amica mi ha regalato In altre parole di Jhumpa Lahiri. In questo libro la scrittrice americana racconta la sua passione per l'italiano e la storia del processo di apprendimento della lingua, prima in America, poi in Italia; l'istintivo e improvviso bisogno di cominciare a scrivere racconti in italiano (il libro stesso non è una traduzione, ma è nato direttamente in italiano); il rapporto tra l'italiano e le altre lingue della sua vita, l'inglese e il bengalese. 





Le parole di Jhumpa Lahiri e le sue riflessioni sulla lingua mi hanno accompagnato in questa prima settimana in Giappone. Mi hanno fatto ricordare il trasporto istintivo, la decisione di imparare la lingua quando ero ancora in italia, lo studio appassionato, sfrenato, quasi malsano durante l'anno vissuto a Tōkyō, la sensazione di esilio che provai al mio ritorno in Italia. 


In un passo Lahiri dice:

Dopo aver trascorso un anno a Roma torno un mese in America. Lì, subito, sento la mancanza dell'italiano. Non poterlo parlare e ascoltare ogni giorno mi angoscia. Quando vado nei ristoranti, nei negozi, in spiaggia, m'infastidisco: come mai la gente non parla italiano? Non voglio interagire con nessuno. Provo un sentimento di nostalgia struggente.

Il mio rapporto con il giapponese ovviamente è cambiato nel tempo e ancora cambierà, ma quello che mi ha colpito in questi giorni sono stati soprattutto i conflitti, l'alternarsi di sensazioni di vicinanza e lontananza, di amore e rifiuto.


Il più delle volte mi sembra tutto così naturale che nemmeno mi accorgo di leggere e pensare in un'altra lingua. Mi piace fermarmi a sfogliare libri nei caffè con l'aria condizionata a mille e ogni tanto guardare fuori la gente che passa, mi sembra di essere a casa totalmente protetta e totalmente in me. Penso: questa sono io. 






Poi però arriva una frustata improvvisa. 


Mentre guardo un'insegna, quell'ideogramma di cui capisco il significato ma di cui non ricordo minimamente la lettura mi disturba come un'interferenza in una trasmissione radiofonica. Il sentirmi improvvisamente bloccata prima di rivolgere la parola a qualcuno, la paura di sbagliare e la vergogna sono aspetti tipici del mio carattere, ma si fanno più acuti qui. In certi momenti, la sensazione che non sarò mai allo stesso livello di un madrelingua nelle dinamiche della comunicazione e che non avrò mai, in giapponese, le stesse facoltà espressive che ho in italiano m'incupisce e mi fa chiudere in me stessa.


Quello che ho coltivato fino ad ora è un amore folle e impossibile e a volte la frustrazione mi fa desiderare di chiudere questa relazione difficile come si lascia un amante troppo sfuggente:

Una lingua straniera può significare una separazione totale. Può rappresentare, ancora oggi, la ferocia della nostra ignoranza. Per scrivere in una nuova lingua, per penetrarne il cuore, nessuna tecnologia aiuta. Non si può accelerare il processo, non si può abbreviarlo. L'andamento è lento, zoppicante, senza scorciatoie. Più capisco la lingua, più si ingarbuglia. Più mi avvicino, più si allontana. Ancora oggi il distacco tra me e l'italiano rimane insuperabile. Ho impiegato quasi metà della mia vita per fare appena due passi. per arrivare solo qui.

So bene che il non poter mai dire: "ci sono", "sei mia", quel velo sulle parole che ti lascia sempre il dubbio di non afferrare qualcosa, quel sentirsi straniera quando ci si vorrebbe invece mimetizzare alla perfezione sono l'altra faccia della medaglia, sono parte del gioco di seduzione di una lingua straniera, specie di una lingua così distante. 

[...] credo che una consapevolezza dell'impossibilità sia centrale all'impulso creativo. Davanti a tutto ciò che mi sembra irraggiungibile, mi meraviglio. Senza un sentimento di meraviglia verso le cose, senza lo stupore, non si può creare nulla.Se tutto fosse possibile, quale sarebbe il senso, il bello della vita?Se fosse possibile colmare la distanza tra me e l'italiano, smetterei di scrivere in questa lingua.

Ma quando sono al culmine del pessimismo linguistico e la coscienza di questa separazione incolmabile mi affligge, ci sono alcune piccole cose che mi aiutano a risalire.


Jay Rubin in Making sense of Japanese. What the text books don't tell you, a un certo punto scrive:

Undeniably, Japanese is different from English. The language is different, the people are different, the society is different, and all of these are enormously interesting precisely for that reason. The Japanese do so many things "backwards" from our point of view. A Japanese sentence, with its verb coming at the end is not only backwards but upside-down. One of the most satisfying experiences a human being can have is to train his or her mind actually to think in a foreign mode - the more nearly upside-down and backwards the better.

Jhumpa Lahiri comincia il suo libro con una citazione di Tabucchi:
Avevo bisogno di una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione. 

Non mi è ancora del tutto chiaro il perché, ma è evidente che anch'io avevo bisogno di una lingua differente, completamente differente, una lingua che mi mettesse a testa in giù. Il mio rapporto con lei dopo tanti anni è giunto a un nodo e i conflitti che sento mi hanno portato a pensare che il salto che voglio fare in questi due mesi qui a 
Kyōto è accettare il fatto che le soddisfazioni e i disagi fanno parte dello stesso pacchetto e che senza la frustrazione e le brutte figure non esisterebbero nemmeno la gioia e la soddisfazione del miglioramento. Infine, al di là di tutti i buoni propositi, ho voluto la bicicletta? E mo' pedalo! :) 




lunedì 2 marzo 2015

Gli altri traduttori (e io)
L’inizio di un nuovo libro


Spesso, mentre traduco un libro, leggo libri sulla traduzione. 

Le parole di traduttori esperti ed autorevoli mi aiutano a tenere viva la riflessione sul lavoro che sto portando avanti, e mi fanno sentire protetta, come se un maestro fosse sempre lì a seguirmi, ammonirmi, incoraggiarmi, illuminarmi.

Tanti momenti di sconforto li ho superati così. Ricordo, in particolare, Letteralmente a pezzi di Daniele Petruccioli, il racconto ironico delle difficoltà da lui incontrate nel tradurre Lettere di Mark Dunn per Voland. Poche pagine che mi risollevarono da uno stato traduttivo-depressivo-ossessivo (Non so fare questo lavoro, basta, lascio tutto, mi metto a fare la cuoca in un ristorante giapponese).

In questi giorni, come compagno per la nuova traduzione, ho scelto il libro Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti di Susanna Basso.

L’ho adorato subito, fin dall’incipit:

Tradurre è bellissimo in autunno, quando le giornate diventano più corte e accendo la luce sul mio libro sempre prima. La luce naturale un po’ mi deconcentra; illumina anche il resto della stanza, tutti gli altri libri, i mobili, le tende. Qui sotto invece, in questo cerchio chiaro che mi isola, siamo davvero sole, le frasi e io.

Poco dopo, parlando delle sue prime traduzioni, Susanna Basso dice:

Dovevo ancora accettare la lentezza che la traduzione impone; ricordo che cercavo di escogitare sistemi per accelerare i tempi. Ero convinta che l’esperienza mi avrebbe resa più veloce.

Ho avuto la sensazione che un pensiero nascosto da qualche parte dentro di me maturasse all’improvviso e venisse finalmente allo scoperto.

Ogni volta che comincio un nuovo lavoro mi ripeto: «Ormai sono più esperta, sarò più veloce» e ogni volta mi sbaglio. La traduzione ha i suoi tempi, che fino ad ora non sono mai riuscita a forzare. Ho sempre vissuto questa impossibilità con un senso di colpa e di inadeguatezza, ma qualche giorno fa, leggendo le parole di Susanna Basso, mi è scesa una strana calma, come un sentimento di riappacificazione, non so, come se fosse la mattina di Natale, fuori nevicasse dolcemente e io fossi in casa seduta al caldo davanti al camino (che, tra parentesi, non ho mai avuto in vita mia, ma insomma immagino sia bello).

La Basso infine scrive:

Ho poi scoperto che l’esperienza non accelera affatto i tempi del lavoro, ma cura l’impazienza e il bisogno che il telefono squilli.

Allora questo nuovo libro, 朴歯の下駄 Hooba no geta di Noguchi Akiko, vorrei portarlo avanti con il piede giusto. Fin dalle prime pagine ho sentito che la voce delicata di questa donna richiederà tempo per essere capita e tempo per essere resa. Ma, diversamente dal solito, è stato un pensiero sereno, caldo, privo di ansia. Questa volta vorrei esercitare con più amore quelli che forse sono i miei unici talenti, la pazienza, la costanza, la lentezza. Saremo «davvero sole, le frasi e io», e – confesso – ora non potrei immaginare per me nessun conforto migliore. 


Noguchi Akiko 野口昭子




venerdì 6 febbraio 2015

Traduttori acchiappafantasmi

Allora. Sono le 4 di mattina. No, non sto facendo nottata a tradurre: sono uno di quei traduttori diurni che a quest'ora di solito se la dormono. E no, non sto pensando di passare al lato oscuro della forza e prendere anch'io l'abitudine di lavorare di notte. 
Insonnia, tutto qui. 
Ma la traduzione c'entra.
(Voce fuoricampo: e ti pareva!)

Diciamo che sono in attesa. Il mio ultimo libro, a cui ho avuto la fortuna di poter lavorare per un tempo infinito, sta per andare in stampa. 




Dopo che l'ho revisionato almeno una decina di volte, dopo che me l'hanno revisionato, dopo che, dopo che me l'hanno revisionato, l'ho ri-revisionato, il testo giace buono buono nel pc dell'impaginatore. Non riesco a non pensarci. Sta lì, al freddo, in un computer estraneo.

In un eccesso di mia pignoleria e grazie alla sovrannaturale disponibilità dei committenti, abbiamo deciso che finita l'impaginazione gli darò un'ultima occhiata. Torniamo quindi al problema di cui sopra: l'insonnia.

Sono giorni che penso con una certa apprensione al momento dell'ultima rilettura - non mi era mai capitato con gli altri lavori, perlomeno non così. Ovvio, mi verranno dubbi su punti, virgole, noterò gli spazi di troppo e quelli mancanti, ma queste cose non mi preoccupano perché tutto sommato, finché il libro non è stampato, si possono ancora sistemare con una certa facilità. Il problema è che avrò voglia di rigirare le frasi, di cambiare le parole, di ricontrollare passo passo l'originale. Insomma, avrò voglia di ritradurlo, di ricapirlo, di sfilare la tela e ricominciare da capo. Già lo so. 

È che questa volta traducendo pensavo: il testo è una casa stregata, cambia continuamente sotto i passi di chi ci abita. Dove c'era la camera da letto trovi la cucina; le porte non sai mai su che parete si apriranno; le finestre su che paesaggio si affacceranno. 

Un po' di tempo fa chiesi a un mio caro amico e collega:

Lore', ma tu mentre traduci non hai la sensazione costante che qualcosa sfugga alla tua comprensione? Come se cercassi di stringere le frasi in una mano e loro continuassero a scivolare via?

Risposta:

Oh, Ange, ma qua non c'entra niente la traduzione! Qua so tuoi problemi esistenziali!!!

E mi sa che c'aveva ragione!

mercoledì 4 febbraio 2015

Da una sera di pioggia sulla Tiburtina al Diario di Izumi Shikibu

Stasera, guardando la pioggia dalla finestra, ho ricordato un brano del Diario di Izumi Shikibu (e dire che sto sulla Tiburtina... la poesia può fare miracoli)!




Arrivò anche il quinto giorno del quinto mese, ma la pioggia non cessava ancora. Il Principe che era rimasto molto colpito dal tono malinconico dell'ultima lettera della Dama, la mattina successiva alla notte in cui era caduta ininterrottamente una pioggia torrenziale, le scrisse:

«Il rumore della pioggia della scorsa notte, faceva davvero paura!» 

La Dama gli rispose con questi versi:

Durante tutta la notte
a chi mai potevo pensare
mentre ascoltavo 
il rumore della pioggia
che batteva sulla finestra?

E aggiunse: «Nonostante fossi al coperto le mie maniche erano incredibilmente bagnate».






Non ho resistito alla tentazione di riprendere il libro, uno di quelli che ritornano spesso sul mio comodino, e che stasera dopo tanto mi farà di nuovo compagnia.

Chiunque abbia studiato anche solo un po' la letteratura giapponese antica sa bene che nel Giappone dell'XI secolo la poesia svolgeva un ruolo essenziale nei rapporti tra uomini e donne. Spesso per spiegare questa cosa ai miei amici dico: «Era un po' come gli sms per noi». Certo il paragone con gli sms rende solo l'aspetto funzionale, non quello estetico. Questi messaggi poetici di periodo Heian (794-1185) erano scritti in bella calligrafia, su carte particolari, accompagnati da ramoscelli o omaggi floreali, e ogni dettaglio aveva un significato e trasmetteva di per sé un messaggio al di là del contenuto dei versi. 

Quanta bellezza!

Tra i miei versi preferiti ci sono proprio quelli del Diario di Izumi Shikibu, il racconto in terza persona dell'amore intenso (quanto socialmente inaccettabile per l'epoca) tra la grande poetessa Izumi Shikibu e il principe imperiale Atsumichi. 




Il testo è di incerta datazione e attribuzione. Probabilmente fu scritto nella prima metà dell'XI secolo da un aristocratico di medio rango che cercò di ricostruire la storia d'amore tra Atsumichi e Izumi Shikibu a partire da una raccolta poetica privata di lei.

Ma non voglio parlare di questo, piuttosto lasciarmi prendere ancora una volta dalla estrema bellezza dei versi, sperando che prenda anche voi.

Ancora la pioggia:

Un giorno arrivò un messaggio del Principe:

«Come state in questi tediosi giorni di pioggia?» seguito da questi versi:

Pensate che sia la solita
pioggia del quinto mese?
Sono invece lacrime
d'amore per voi
la pioggia incessante di oggi


Più avanti, sempre il Principe dice:

Anche se li paragono 
all'acqua che inonda 
le rive del fiume,
molto più profondi sono
i miei sentimenti per voi

«Ve ne siete accorta?»

Non vorrei affastellare poesie e poesie fuori dal loro contesto rischiando di creare un magma informe di parole, perciò eccovi solo un altro brano, per chiudere. 

Questo estratto contiene la mia poesia preferita, il risultato dell'unione delle menti, dei cuori e delle abilità compositive dei due amanti. Comincia il Principe, e la Dama lo segue, in quella che sembra una sola unica voce:

«Farò tutto quello che volete, temo però che vedersi sempre affievolisca la passione», rispose la Dama.
«Allora provate a vivere insieme a me. Vedrete così che proprio come succede alle pescatrici di Ise con la veste che indossano, più vi abituerete a me e più vi affezionerete», rispose il Principe e poi se ne andò.
Vicino allo steccato, davanti alla casa, c'era un bellissimo albero di fusaggine con le foglie appena tinte di rosso. Il Principe ne spezzò un ramo e avvicinandosi alla veranda recitò:

Intenso è diventato il nostro amore
come il colore di queste foglie

E la Dama replicò:

Mentre io lo credevo 
un amore effimero
come rugiada trasparente.





Buona notte e sogni romantici a tutti!












domenica 23 novembre 2014

L’invidia del traduttore dal giapponese


Domenica di fine autunno, in casa a mangiare torta davanti al pc, fuori già quasi buio, non riesco a immaginare momento migliore di questo per abbandonarmi ai lamenti e all’autocommiserazione. Metto subito le carte in tavola senza troppi giri. Il punto è questo: ogni settimana sui forum di traduttori (biblit, ad esempio), su facebook, sui blog di traduzione che seguo, un altro po’ pure nella cassetta della posta, mi arrivano avvisi di incontri, seminari, laboratori, corsi d’aggiornamento, pubblicazioni e concorsi destinati a traduttori o aspiranti traduttori, tecnici e letterari. Che bello – penserete! E infatti sì, è stupendo! Se uno traduce dall’inglese, dal francese, dal tedesco o da altre lingue europee. Ma un povero traduttore dal giapponese che deve fare per confrontarsi, formarsi, migliorare?

Attualmente in Italia l’unico luogo deputato alla (prima) formazione dei traduttori dal giapponese è l’università. Finita quella, se si intraprende il percorso di traduttore al di fuori dell’ambiente accademico, il giovane e meno giovane determinato a fare della traduzione il suo lavoro incontra davanti a sé una landa desolata. Mancano master, corsi di specializzazione, luoghi di incontro, concorsi specifici e persino testi di riferimento.
La maggior parte di noi, allora, si ingegna per sfruttare al massimo tutto quello che ha a disposizione.

La prima cosa di solito è leggere manuali per traduttori dall’inglese o da altre lingue verso l’italiano, ma è inutile dire che in questi libri, peraltro utilissimi e interessantissimi, un traduttore del giapponese non troverà quasi mai affrontate certe questioni che riguardano nello specifico il passaggio spericolato da una lingua così lontana alla propria.

Un’altra cosa che si può fare, e che a me è servita molto in questi anni, è leggere i manuali di traduzione dal giapponese destinati a studenti o studiosi di lingua inglese (dico inglese perché è una lingua che conosco, ma credo e spero esistano pubblicazioni di questo genere anche in altre lingue europee). In questa maniera ho sciolto diversi dubbi, ho avuto delle vere epifanie. Però, com’è ovvio, esistono tutta una serie di problemi particolari relativi alla traduzione dalla lingua giapponese alla lingua italiana che continuano a non essere trattati.

Spulciando ben bene, del materiale specifico lo si riesce anche a mettere insieme, ma è poco!

Certo esistono l’esperienza, il confronto con i colleghi (una vera salvezza), lo studio delle traduzioni autorevoli e altri mezzi a cui ogni traduttore, non solo chi si occupa di lingue lontane, può e deve ricorrere. Però concedetemela un po’ di invidia domenicale, a costo di accumulare demeriti karmici intendo nutrire per qualche ora questo sentimento poco nobile. Ma, soprattutto, concedetemi di fare un appello: grandi traduttori che avete scritto la storia della letteratura giapponese in Italia (non so, Giorgio Amitrano, Maria Teresa Orsi, Antonietta Pastore, Andrea Maurizi, Ginaluca Coci, Paola Scrolavezza - e potrei fare molti altri nomi) abbiate pietà e scrivete di più sulla traduzione!

Spero nel futuro. E, nonostante lo sfogo di oggi, non sono una persona che sta lì a lamentarsi con le mani in mano. Vediamo che si può fare, vediamo che si può organizzare. Ma almeno per un altro po’ non mi resta che miagolare alla luna :)